lunedì 1 dicembre 2014

Blog#undici: Dal mito di Roma al mito d'Italia

              La Città Eterna ha costruito nel tempo una sua storia e un suo mito,
              si può dire lo stesso per il Bel Paese
          “(Italia) Ove son dunque i tuoi figli?
          Nulla ti manca se non  la forza della concordia.”
              Foscolo ne “Le Ultime lettere di Jacopo Ortis” parlava
              così ad un’Italia che di fatto non c’era e forse ancora non c’è


Roma riuscì a costruire durante la sua storia, durata più di due mila anni, un proprio mito ed una propria identità tanto forti da caratterizzare la successiva storia del vecchio continente e persino di tutto il genere umano e tanto duraturi da donarle l’appellativo di Eterna. Come ogni mito anche Roma ebbe un inizio (monarchia), uno sviluppo (repubblica) ed una grandiosa fine (impero), che coincise proprio con l’apice della sua grandezza e che per certi versi fu proprio l’effetto di un così grande potere. Tuttavia il suo splendore non ebbe degni eredi in Italia, in un’Italia che senza più la guida dell’Urbe si sfaldò come un castello di carte, così profondamente legata a quell’antico splendore che continuava a vivere in lei ma al contempo altrettanto incapace di rivestire il ruolo di cui era erede naturale.
Anche se non è possibile distinguere l’Italia da Roma e viceversa, basti pensare al Virgiliano Acate che approdando presso le coste della penisola fu il primo a gridare “Italia” pur non esistendo ancora nulla del genere, per capire che al tempo dell’Urbe parlare di Italia e di Roma era praticamente quasi la stessa cosa. Quella italiana è una storia che vede contrapporsi fortemente amore ed odio sin dai tempi in cui l'unione nazionale si poteva solo immaginare e neanche troppo sperare e in cui il Poeta Vate si trovò ad appellare la penisola con termini molto distanti fra loro, ossia: Bel Paese e bordello. Tuttavia l’idea di Italia unita, idea sublime ma sempre distante, fu dominante in quasi tutte le epoche storiche che seguirono il crollo dell’Impero romano, dal Medioevo di Dante al Rinascimento di Machiavelli che sperava spesso in una soluzione a questo “problema italiano” e di cui è un esempio lampante l’opera Il Principe. Ma non si ferma al Rinascimento il desiderio di amore nazionale, che rimase vivo fra gli intellettuali fino all’Illuminismo, quando troviamo le appassionate idee di Foscolo che non riesce a trovare i “figli d’Italia” e che quindi non può far altro che biasimare questa terra alla quale “nulla manca se non la forza della concordia”.
Forza che fu trovata solo nel 1861 quando uomini coraggiosi decisero di dare all’Italia una tanto agognata unità, una tanto desiderata storia. Pertanto si parlò davvero di Italia solamente con Garibaldi e con la sua celebre frase “Qui si fa l’Italia o si muore!” e con Mameli che volle chiamare “Fratelli d’Italia” tutti coloro che fratelli non lo erano quasi mai stati (basti pensare agli antichi conflitti fra comuni, ducati, regni e signorie).
Tuttavia in alcuni casi questa storia d’Italia, che vide solo in un tardo momento sorgere davvero e per certi versi anche in modo incerto una vera Italia, fa riflettere. Fa riflettere sul fatto che seppur tanto voluta da molti, questa Italia unita non lo è in fondo mai stata e che persino ora fa fatica ad esserlo. Pertanto se parlando di un “mito di Roma” si va poi a cercare il “mito d’Italia”, la ricerca risulta deludente in quanto si concluderà con un’Italia che, storicamente molto giovane, ha una vicenda che di “mitico” ha ben poco. Però la situazione si ribalta quando si scava più a fondo nella questione italiana, quando si va alla ricerca di quegli uomini che pur non essendo ancora formalmente italiani si sentivano tali, pur non esistendo ancora l’Italia, loro ne potevano già descrivere i connotati, in parte memori di quell’Italia romana che ora era perduta e ceca senza una guida; in parte speranzosi in un futuro in cui qualcosa potesse cambiare e una nuova Italia potesse nascere.
Per questo motivo il “mito d’Italia” esiste ma è nascosto, non è palese come il “mito di Roma” forte ed eterno, ma è più delicato, dolce ed intimo, lento a manifestarsi ma capace di rapire l'intelletto e l'anima degli uomini e capace di dargli una speranza. Ed è proprio qui che sta il mito d’Italia, nella stessa speranza radicata e costante che il mito possa un giorno esistere, piuttosto che nella sua reale esistenza.


Blog#dieci: L'ozio è il padre di tutti i vizi?

L’ozio è visto da molti in modo alquanto negativo, infatti è inteso dai più come quel sentimento che porta l’uomo a perdere tempo, e poiché è ben noto che nella società moderna il tempo è denaro, passare del tempo ad oziare è un atto, se non condannato, quantomeno giudicato inutile dalla maggior parte delle persone. La stessa enciclopedia Treccani.it ne fornisce la seguente definizione: “ozio - In genere, astensione dalle occupazioni utili, per un periodo più o meno lungo o anche abitualmente, per indole pigra, indolente.”

Tuttavia per i greci e i latini questo termine non aveva la stessa accezione negativa che lo caratterizza oggi. Infatti sempre l’enciclopedia Treccani.it spiega che “Presso gli antichi Romani otium era il tempo libero dai negotia (le occupazioni della vita politica e gli affari pubblici), dedicato alle cure domestiche e della proprietà, oppure agli studi; da qui la parola passò a indicare l’attività letteraria (otium litteratum). Pertanto era l’altra faccia di quella medaglia che risultava essere la vita quotidiana romana, divisa appunto fra occupazioni lavorative e tempo libero. Tuttavia bisogna badare bene al fatto che il tempo libero dei latini era del tempo speso per attività costruttive e quindi non propriamente riposo fine a se stesso (come invece è più largamente inteso l’ozio in epoca moderna). Anche Aristotele, nella sua Etica Nicomachea afferma che “Se l’attività dell’intelletto, essendo contemplativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro fine all’infuori di se stessa ed avere un proprio piacere perfetto (che accresce l’attività) ed essere autosufficiente […] allora questa sarà la felicità perfetta dell’uomo, se avrà la durata intera della vita.” Mettendo chiaramente in risalto un’attività dell’intelletto che si mette all’opera procurando la felicità all’uomo (in maniera però contemplativa, quindi in un modo più “statico”). Questa concezione dell’otium degli antichi è stata magistralmente teorizzata da Seneca che ne ha fatto l’argomento principale per una sua celebre opera intitolata appunto De Otio che è stata materia del convegno “Seneca nella coscienza dell’Europa”. Infatti il filosofo latino affermava che "La natura ci ha generati per entrambi gli scopi, la contemplazione (contemplatio) e l'azione (actio)" e che quindi l’equilibrio si trova solamente nel mezzo, senza preferire troppo né l’otium né il negotium.

Nella società moderna però questo equilibrio si è perso, in quanto sono sempre più tangibile nella vita di tutti i giorni una frenesia ed una propensione senza dubbio maggiori verso il lavoro e l’azione; ciò però va a discapito della contemplazione e di vari processi costruttivi di carattere più introspettivo e spirituale che puramente materialistico, i quali vengono erroneamente relegati alla sfera dell’ozio. Pertanto si è persa la capacità di soffermarsi a pensare oppure di dedicare del tempo alla riflessione, in quanto un atteggiamento del genere non è conforme alla società in cui ci si trova ad operare, società che come già detto, punta molto sull’actio a discapito della contemplatio. Una volta compreso il sistema sociale in cui ci si trova oggi, è facile capire come l’ozio (sia nelle sue forme positive che in quelle negative) è in ogni caso visto come una perdita di tempo, un impedimento inutile per l’economia della società e dell’individuo stesso che, facendone inscindibilmente parte, si trova per certi versi succube dei suoi meccanismi.
Pertanto quando Tolstoj in Guerra e pace ammette che “per le nostre qualità morali, non possiamo essere felici oziando.” risulta essere sorprendentemente attuale.
Tuttavia se, come già spiegato, l’ozio ha assunto sempre più un carattere negativo c’è un motivo che ci viene ben spiegato nell’articolo del Corriere salute intitolato “L’ozio vero padre dei vizi”. Nell’articolo infatti viene spiegato come “l’arte del dolce far niente” possa avere conseguenze negative sull’individuo e sul suo rapporto con la società. Infatti gli psicologi della Kansas State University e dell' University of West Florida hanno scoperto che i giovani predisposti alla noia restano "indietro", e non poco, in variabili importanti dello sviluppo psicosociale: dalla progettazione della propria carriera alla creazione di un proprio stile di vita; dalle relazioni con i pari all' autonomia emotiva e pratica; dal coinvolgimento nelle attività di apprendimento fino all' assunzione di stili di vita salubri. Questa ricerca è stata inoltre arricchita da una chiara ed ampia definizione di “noia”: “La noia infatti può essere descritta come un' avversione per le esperienze ripetitive di ogni tipo, per il lavoro routinario, per le persone noiose o stupide", inoltre gli autori della ricerca affermano che "In genere è caratterizzata anche dalla presenza di irrequietezza, che insorge quando all' individuo non è possibile allontanarsi dalla fonte della noia". Gli psicologi che descrivono questo stato d'animo ne parlano come di un sentimento che insorge in seguito al venir meno dell' attività, delle relazioni interpersonali e di tutte le altre possibili situazioni solitamente stimolanti per l' individuo. In questo articolo però bisogna notare che noia ed ozio sono sinonimi, anche se tecnicamente non dovrebbe essere proprio così.

Infatti, seppur la società releghi l’ozio a semplice sinonimo di noia, come abbiamo visto fino ad ora, questo non è propriamente corretto. Quindi, prendendo in considerazione l’aforisma di Kafka “L'ozio è il padre di tutti i vizi, ed è il coronamento di tutte le virtù” si può fare un’analisi molto più chiara di questo termine così ambiguo. Infatti analizzando la citazione si può ben comprendere come l’ozio sia allo stesso tempo “padre di tutti i vizi” e “coronamento di tutte le virtù”. Ciò è possibile in quanto questo termine può trovare un’accezione negativa o positiva in base all’utilizzo che si fa del tempo passato ad “oziare”. In altre parole l’ozio risulta essere il “padre di tutti i vizi” quando si trasforma in noia, ossia quando crea nell’individuo un continuo stato d’insoddisfazione verso ciò che lo circonda; mentre diventa “coronamento di tutte le virtù” nel momento in cui ricopre il suo originale ruolo di momento riflessivo privilegiato, dedicato alla propria cura personale (che sia essa intellettuale, fisica o spirituale).


Pertanto l’ozio, inteso nel suo senso più antico (e per certi versi più corretto ed equilibrato) diventa tutt’altro che superfluo, anzi al contrario, risulta essere necessario all’uomo in quanto come disse la scrittrice britannica Virginia Woolf “nell'ozio, nei sogni, la verità sommersa viene qualche volta a galla.”. Quindi, pur dovendo andare contro quell’inarrestabile fiume in piena che è lo scorrere del tempo e della modernità nella società contemporanea, è bene per l’uomo dedicarsi ogni tanto all’ozio per ritrovare se stesso o quanto meno per cercare di non perdersi in una frenesia che non lascia più né spazio né tempo a nulla. A tal proposito è interessante contrapporre alla definizione di ozio data dall’enciclopedia Treccani.it un’altra definizione, senza dubbio più concisa e meno enciclopedica ma forse più diretta; infatti lo scrittore statunitense Amrbose Bierce lo ha espresso in questo modo: “Ozio: Intervalli di lucidità nei disordini della vita.”.