giovedì 26 marzo 2015

Blog#quattordici: C'era una volta il cinema italiano ...


Quando parliamo di cinema italiano di cosa stiamo parlando di preciso? Innanzitutto va detto che per convenzione si fa risalire la nascita del cinema italiano alla prima proiezione pubblica del Cinématographe, avvenuta il 13 marzo 1896 presso lo studio Le Lieure di Roma. Da quel momento in poi furono sempre di più gli autori che portarono avanti nel nostro Paese questo nuovo modo di esprimersi per immagini in movimento. Era quindi iniziato un lungo sodalizio che legava l’Italia a questa nuova forma d’arte ed il manifesto “La nascita della settima arte” pubblicato nel 1921 in cui venne prevista la portata rivoluzionaria del cinema, non è un caso che fu scritto proprio da un italiano, l’illustre critico cinematografico Ricciotto Canudo. Tuttavia i tempi d’oro del cinema italiano durarono solo fino agli anni ’80, periodo in cui il cinema americano era in crescita esponenziale e aveva scavalcato ormai anche in questo campo le nazioni europee, purtroppo però all’ascesa statunitense si andò ad aggiungere anche l’improvvisa crisi del cinema italiano mettendo in ginocchio il nostro modo di fare cinema, relegandolo ai margini dell’interesse mondiale ed è qui che per certi versi è relegato ancora oggi.
Ma cosa in quella stagione aveva condannato il cinema italiano? La perdita di una propria identità. Per recuperare la propria qualità quindi, il nostro cinema doveva in qualche modo ricominciare, soprattutto doveva farsi riconoscere fuori dai confini. Gli anni ottanta hanno ospitato validi autori e buoni titoli ma non sono riusciti a dare un respiro internazionale alle loro opere. Questa situazione è quindi perdurata fino ai giorni nostri in cui il cinema italiano non riesce più a tener testa al grande cinema internazionale come dovrebbe e come, per certi versi, potrebbe fare. Purtroppo la globalizzazione sempre più onnipresente nella vita di tutti i giorni sta condizionando negativamente il nostro cinema che si trova schiacciato dalla concorrenza prepotente del cinema americano. Infatti il gran numero di pellicole distribuite dai colossi dell’industria cinematografica invadono spesso il mercato a discapito dei film italiani che, seppur validissimi e di enorme bellezza, si trovano ad essere visti da un pubblico immeritatamente esiguo. Se ci si pensa il nostro cinema degli anni d'oro è stato grande proprio perché era fuori dal sistema, oggi invece i film che sono fuori dal sistema hanno poche possibilità di emergere.


Per questo motivo sono sempre di più coloro che hanno perso fiducia nel cinema italiano e rifiutano quasi a prescindere le pellicole “made in Italy” fermandosi ad esprimere critiche superficiali. Tuttavia in Italia abbiamo una grande tradizione che tutto il mondo ci invidia e ci imita, oltre che un gusto ed una sensibilità unici ed inimitabili che ci caratterizzano in tutto il mondo e non è un caso che fra i premi cinematografici più importanti al mondo uno sia proprio italiano. Purtroppo il cinema in Italia sta conoscendo un declino non comune per vari motivi ed ancor peggio è il fatto che gli unici film che riescono a sopravvivere siano piuttosto delle mascherate grottesche buone solo a fare botteghino e nulla più, degli esperimenti di bassa lega adatti al grande pubblico senza pretese. Ma sono queste le cose che la gente vede, la punta sporca di un iceberg che non riesce ad emergere se non attraverso la sua parte peggiore. Eppure la vittoria agli  Oscar negli ultimi vent’anni di ben due film italiani ( “La vita è bella” e “La grande bellezza”) ci dovrebbe far riflettere che in fondo il grande cinema italiano esiste ma è nascosto e fa fatica a mostrarsi, offuscato da tutto il cinema-spazzatura che si riversa incessantemente sugli schermi dei grandi multiplex. Per questo motivo non è corretto dire che il cinema italiano è morto, va detto piuttosto che “c’era una volta il grande cinema italiano … “ lasciando quindi spazio all’aggiunta di un eventuale conclusione del tipo: “e c’è ancora oggi”.

Blog#tredici: Eroi senza nome


Non ci si pensa mai, eppure ogni giorno siamo circondati, per un motivo o per un altro, da decine di persone che non conosciamo e che ci risultano essere tutti ugualmente indifferenti (basti pensare a quando siamo per strada, in pullman o in un supermercato). Tuttavia se ci si ferma un attimo a riflettere, si capisce che non siamo proprio tutti uguali e che fra la gente comune talvolta si nasconde anche qualche “eroe senza nome”.
Nelle nostre città infatti esistono degli “eroi invisibili” che vivono le loro vite come persone comuni (non hanno alcun superpotere ma sono molto più reali dei supereroi dei fumetti) e che ogni giorno danno prova del loro valore nell’anonimità della vita quotidiana, sacrificando se stessi per il bene del prossimo e della collettività. Naturalmente, ponendo l’attenzione su questo genere di persone non si vuol certo sminuire la grandezza di tutti quegli uomini che hanno dato la propria vita per qualcosa di più grande di loro e che sono stati riconosciuti eroi, passando alla storia come tali (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Nelson Mandela, Giuseppe Garibaldi, Re Leonida, ecc… )
Tuttavia, oltre a questi “grandi eroi” esistono, appunto, anche molti “piccoli eroi” a cui non si pensa, ma che nella monotonia di ogni giorno danno forza e struttura alla società, proteggendola dai pericoli esterni e talvolta persino da se stessa. E’ di questi individui che si vuole parlare in questo articolo. Infatti se da un lato non è facile vivere nella società moderna (a causa di eventi naturali o artificiali come ad esempio epidemie, catastrofi o guerre), dall’altro lato ci sono sempre dei “fattori” che evitano lo sprofondamento nel caos. Ma tutto ciò com’è possibile? E’ qui che entrano in gioco quelli che, nel titolo, abbiamo chiamato “eroi senza nome”. Capire chi siano questi individui diventa quindi immediato, in quanto essi sono tutte quelle persone che svolgono lavori socialmente necessari e non soltanto socialmente utili. Infatti se è vero che ogni occupazione risulta essere, a modo suo, utile alla società; essa non sempre è anche necessaria come invece lo sono altre. Quindi in questa categoria troviamo: vigili del fuoco, forze dell’ordine (Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Carabinieri, ecc.), volontari di associazioni umanitarie (come ad esempio Emergency, Medici Senza Frontiere e Croce Rossa), fotoreporter e giornalisti che operano in zone pericolose (per lo più di guerra), giusto per citarne alcuni. Tutti questi “tipi” di persone sacrificano ogni giorno i propri interessi privati, il proprio tempo, talvolta anche i propri affetti, per dei valori collettivi che vanno oltre se stessi e che richiedono continui sacrifici personali e la prontezza a sacrificare, qualora fosse indispensabile, anche la propria vita. Tutti questi uomini e donne sono eroi, anche se raramente sono considerati tali e quasi mai ci si ricorda di loro. Sono eroi perché costituiscono la garanzia di stabilità della società e perché la mantengono in vita.
A questi eroi vanno poi aggiunti tutti quegli individui che, anche se non gli vengono richiesti sacrifici estremi, costruiscono e costituiscono, lontano dai riflettori, le fondamenta della società e qui troviamo: operai, insegnanti (fino alla scuola secondaria), infermieri e operatori del settore sanitario, volontari di centri di assistenza o recupero (per malati, anziani o tossicodipendenti), operatori ecologici, ecc…

Pertanto risulta essere solo grazie a questi eroi “invisibili” e “senza nome” se la grande macchina sociale si mantiene in vita e continua ad esistere nonostante ogni crisi e difficoltà. Infatti proprio come in ogni grande opera architettonica un singolo mattone sembra essere incredibilmente simile agli altri e apparentemente insignificante in sé; esso è in realtà un pezzo unico ed insostituibile, indispensabile per la realizzazione e il mantenimento dell’opera stessa.

Blog#dodici: Uomo e tecnologia


L’uomo sin dagli albori ha sempre cercato di superare se stesso accrescendo le proprie conoscenze in ogni campo del sapere. Questa sua sete di scoperta ha portato singoli uomini o intere civiltà a dar vita ad infinite invenzioni che hanno caratterizzato intere epoche e periodi storici, spesso modificando il tessuto stesso della società e quindi determinandone costumi e cultura. L’umanità ha conosciuto la sua straordinaria storia evolutiva grazie all’inarrestabile susseguirsi di ricerche e innovazioni tecnologiche ed è quindi assodato il ruolo fondamentale che da sempre questi fattori hanno svolto nel processo di miglioramento della specie. Tuttavia se da un lato la tecnologia risulta essere, con un’accezione estremamente positiva, alla base dell’evoluzione, dall’altro lato ha dato origine in varie occasioni anche a situazioni profondamente negative.
Per poter spiegare meglio questo concetto va preso in analisi il frequente rapporto che si instaura fra la scoperta di nuove tecnologie e il loro repentino utilizzo in ambito militare. Infatti in ogni epoca le scoperte fatte in ambito civile sono sempre state manipolate e perfezionate in modo tale da poter essere utilizzate nell’industria bellica e in generale per favorire il progresso delle tecnologie militari. Facendo un esempio possiamo prendere in considerazione i primi utensili fabbricati dagli uomini primitivi che consistevano in pietre, generalmente di selce, scheggiate su di una faccia e quindi rese taglienti. Inizialmente questi utensili venivano utilizzati per facilitare le azioni quotidiane, fin quando non ci si rese conto che fissandoli in cima a dei bastoni si trasformavano in lance e potevano essere utilizzati anche per altri scopi come la caccia oppure per difendersi dalle bestie feroci, fin qui il loro utilizzo risulta essere estremamente positivo e vantaggioso per la razza umana. Tuttavia ci si accorse presto che esse non erano più soltanto utensili ma armi che potevano essere utilizzate oltre che per difendersi da animali selvaggi anche per attaccare altri uomini nel tentativo di sopraffarli. E’ in questo momento che, con l’uso “improprio” delle sue scoperte, l’uomo ha dato inizio a quel processo che vedrà il continuo susseguirsi nella storia di vari scontri fra “tecnologia positiva” e “tecnologia negativa” e che generalmente viene chiamato progresso. Pertanto il progresso non sempre si rivela essere favorevole all’uomo e ciò accade per via delle conseguenze derivanti dal cattivo uso della tecnologia. Perciò se prima si è parlato di tecnologia “positiva” e “negativa” lo si è fatto in modo improprio in quanto le scoperte tecnologiche in sé non sono né positive né negative, ma possono risultare tali in base al buono o cattivo uso che ne viene fatto.
Riconducendo il discorso all’ epoca moderna la nostra attenzione si concentra sui nuovi settori che l’evoluzione tecnologica ci ha portato a scoprire quali, ad esempio, l’informatica. Per cui ai vecchi utensili in legno e pietra come lance e amigdale, si sostituiscono oggi computer e smartphone che, pur essendo strumenti sideralmente distanti dai primi, sono soggetti alle stesse “leggi” di questi. Infatti sempre più spesso vengono condannate le nuove tecnologie per il loro presunto influsso dannoso sulla nostra società, senza tener conto del fatto che il problema di fondo non è la tecnologia in sé ma l’utilizzo sbagliato che viene fatto di essa. Quindi il problema reale non è lo smartphone o internet, ma l’incapacità della maggior parte degli individui di utilizzare certi strumenti nel modo giusto, cioè senza esserne condizionati in modo quasi patologico.

Pertanto l’inadeguatezza dell’uomo di fronte alla tecnologia risulta riassumibile in due situazioni: o egli ne fa un uso improprio andando a favorire la guerra e la distruzione; oppure si lascia assorbire dalla tecnologia in modo tanto viscerale da giungere gradualmente ad una situazione di sempre maggiore dipendenza da essa.

lunedì 1 dicembre 2014

Blog#undici: Dal mito di Roma al mito d'Italia

              La Città Eterna ha costruito nel tempo una sua storia e un suo mito,
              si può dire lo stesso per il Bel Paese
          “(Italia) Ove son dunque i tuoi figli?
          Nulla ti manca se non  la forza della concordia.”
              Foscolo ne “Le Ultime lettere di Jacopo Ortis” parlava
              così ad un’Italia che di fatto non c’era e forse ancora non c’è


Roma riuscì a costruire durante la sua storia, durata più di due mila anni, un proprio mito ed una propria identità tanto forti da caratterizzare la successiva storia del vecchio continente e persino di tutto il genere umano e tanto duraturi da donarle l’appellativo di Eterna. Come ogni mito anche Roma ebbe un inizio (monarchia), uno sviluppo (repubblica) ed una grandiosa fine (impero), che coincise proprio con l’apice della sua grandezza e che per certi versi fu proprio l’effetto di un così grande potere. Tuttavia il suo splendore non ebbe degni eredi in Italia, in un’Italia che senza più la guida dell’Urbe si sfaldò come un castello di carte, così profondamente legata a quell’antico splendore che continuava a vivere in lei ma al contempo altrettanto incapace di rivestire il ruolo di cui era erede naturale.
Anche se non è possibile distinguere l’Italia da Roma e viceversa, basti pensare al Virgiliano Acate che approdando presso le coste della penisola fu il primo a gridare “Italia” pur non esistendo ancora nulla del genere, per capire che al tempo dell’Urbe parlare di Italia e di Roma era praticamente quasi la stessa cosa. Quella italiana è una storia che vede contrapporsi fortemente amore ed odio sin dai tempi in cui l'unione nazionale si poteva solo immaginare e neanche troppo sperare e in cui il Poeta Vate si trovò ad appellare la penisola con termini molto distanti fra loro, ossia: Bel Paese e bordello. Tuttavia l’idea di Italia unita, idea sublime ma sempre distante, fu dominante in quasi tutte le epoche storiche che seguirono il crollo dell’Impero romano, dal Medioevo di Dante al Rinascimento di Machiavelli che sperava spesso in una soluzione a questo “problema italiano” e di cui è un esempio lampante l’opera Il Principe. Ma non si ferma al Rinascimento il desiderio di amore nazionale, che rimase vivo fra gli intellettuali fino all’Illuminismo, quando troviamo le appassionate idee di Foscolo che non riesce a trovare i “figli d’Italia” e che quindi non può far altro che biasimare questa terra alla quale “nulla manca se non la forza della concordia”.
Forza che fu trovata solo nel 1861 quando uomini coraggiosi decisero di dare all’Italia una tanto agognata unità, una tanto desiderata storia. Pertanto si parlò davvero di Italia solamente con Garibaldi e con la sua celebre frase “Qui si fa l’Italia o si muore!” e con Mameli che volle chiamare “Fratelli d’Italia” tutti coloro che fratelli non lo erano quasi mai stati (basti pensare agli antichi conflitti fra comuni, ducati, regni e signorie).
Tuttavia in alcuni casi questa storia d’Italia, che vide solo in un tardo momento sorgere davvero e per certi versi anche in modo incerto una vera Italia, fa riflettere. Fa riflettere sul fatto che seppur tanto voluta da molti, questa Italia unita non lo è in fondo mai stata e che persino ora fa fatica ad esserlo. Pertanto se parlando di un “mito di Roma” si va poi a cercare il “mito d’Italia”, la ricerca risulta deludente in quanto si concluderà con un’Italia che, storicamente molto giovane, ha una vicenda che di “mitico” ha ben poco. Però la situazione si ribalta quando si scava più a fondo nella questione italiana, quando si va alla ricerca di quegli uomini che pur non essendo ancora formalmente italiani si sentivano tali, pur non esistendo ancora l’Italia, loro ne potevano già descrivere i connotati, in parte memori di quell’Italia romana che ora era perduta e ceca senza una guida; in parte speranzosi in un futuro in cui qualcosa potesse cambiare e una nuova Italia potesse nascere.
Per questo motivo il “mito d’Italia” esiste ma è nascosto, non è palese come il “mito di Roma” forte ed eterno, ma è più delicato, dolce ed intimo, lento a manifestarsi ma capace di rapire l'intelletto e l'anima degli uomini e capace di dargli una speranza. Ed è proprio qui che sta il mito d’Italia, nella stessa speranza radicata e costante che il mito possa un giorno esistere, piuttosto che nella sua reale esistenza.


Blog#dieci: L'ozio è il padre di tutti i vizi?

L’ozio è visto da molti in modo alquanto negativo, infatti è inteso dai più come quel sentimento che porta l’uomo a perdere tempo, e poiché è ben noto che nella società moderna il tempo è denaro, passare del tempo ad oziare è un atto, se non condannato, quantomeno giudicato inutile dalla maggior parte delle persone. La stessa enciclopedia Treccani.it ne fornisce la seguente definizione: “ozio - In genere, astensione dalle occupazioni utili, per un periodo più o meno lungo o anche abitualmente, per indole pigra, indolente.”

Tuttavia per i greci e i latini questo termine non aveva la stessa accezione negativa che lo caratterizza oggi. Infatti sempre l’enciclopedia Treccani.it spiega che “Presso gli antichi Romani otium era il tempo libero dai negotia (le occupazioni della vita politica e gli affari pubblici), dedicato alle cure domestiche e della proprietà, oppure agli studi; da qui la parola passò a indicare l’attività letteraria (otium litteratum). Pertanto era l’altra faccia di quella medaglia che risultava essere la vita quotidiana romana, divisa appunto fra occupazioni lavorative e tempo libero. Tuttavia bisogna badare bene al fatto che il tempo libero dei latini era del tempo speso per attività costruttive e quindi non propriamente riposo fine a se stesso (come invece è più largamente inteso l’ozio in epoca moderna). Anche Aristotele, nella sua Etica Nicomachea afferma che “Se l’attività dell’intelletto, essendo contemplativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro fine all’infuori di se stessa ed avere un proprio piacere perfetto (che accresce l’attività) ed essere autosufficiente […] allora questa sarà la felicità perfetta dell’uomo, se avrà la durata intera della vita.” Mettendo chiaramente in risalto un’attività dell’intelletto che si mette all’opera procurando la felicità all’uomo (in maniera però contemplativa, quindi in un modo più “statico”). Questa concezione dell’otium degli antichi è stata magistralmente teorizzata da Seneca che ne ha fatto l’argomento principale per una sua celebre opera intitolata appunto De Otio che è stata materia del convegno “Seneca nella coscienza dell’Europa”. Infatti il filosofo latino affermava che "La natura ci ha generati per entrambi gli scopi, la contemplazione (contemplatio) e l'azione (actio)" e che quindi l’equilibrio si trova solamente nel mezzo, senza preferire troppo né l’otium né il negotium.

Nella società moderna però questo equilibrio si è perso, in quanto sono sempre più tangibile nella vita di tutti i giorni una frenesia ed una propensione senza dubbio maggiori verso il lavoro e l’azione; ciò però va a discapito della contemplazione e di vari processi costruttivi di carattere più introspettivo e spirituale che puramente materialistico, i quali vengono erroneamente relegati alla sfera dell’ozio. Pertanto si è persa la capacità di soffermarsi a pensare oppure di dedicare del tempo alla riflessione, in quanto un atteggiamento del genere non è conforme alla società in cui ci si trova ad operare, società che come già detto, punta molto sull’actio a discapito della contemplatio. Una volta compreso il sistema sociale in cui ci si trova oggi, è facile capire come l’ozio (sia nelle sue forme positive che in quelle negative) è in ogni caso visto come una perdita di tempo, un impedimento inutile per l’economia della società e dell’individuo stesso che, facendone inscindibilmente parte, si trova per certi versi succube dei suoi meccanismi.
Pertanto quando Tolstoj in Guerra e pace ammette che “per le nostre qualità morali, non possiamo essere felici oziando.” risulta essere sorprendentemente attuale.
Tuttavia se, come già spiegato, l’ozio ha assunto sempre più un carattere negativo c’è un motivo che ci viene ben spiegato nell’articolo del Corriere salute intitolato “L’ozio vero padre dei vizi”. Nell’articolo infatti viene spiegato come “l’arte del dolce far niente” possa avere conseguenze negative sull’individuo e sul suo rapporto con la società. Infatti gli psicologi della Kansas State University e dell' University of West Florida hanno scoperto che i giovani predisposti alla noia restano "indietro", e non poco, in variabili importanti dello sviluppo psicosociale: dalla progettazione della propria carriera alla creazione di un proprio stile di vita; dalle relazioni con i pari all' autonomia emotiva e pratica; dal coinvolgimento nelle attività di apprendimento fino all' assunzione di stili di vita salubri. Questa ricerca è stata inoltre arricchita da una chiara ed ampia definizione di “noia”: “La noia infatti può essere descritta come un' avversione per le esperienze ripetitive di ogni tipo, per il lavoro routinario, per le persone noiose o stupide", inoltre gli autori della ricerca affermano che "In genere è caratterizzata anche dalla presenza di irrequietezza, che insorge quando all' individuo non è possibile allontanarsi dalla fonte della noia". Gli psicologi che descrivono questo stato d'animo ne parlano come di un sentimento che insorge in seguito al venir meno dell' attività, delle relazioni interpersonali e di tutte le altre possibili situazioni solitamente stimolanti per l' individuo. In questo articolo però bisogna notare che noia ed ozio sono sinonimi, anche se tecnicamente non dovrebbe essere proprio così.

Infatti, seppur la società releghi l’ozio a semplice sinonimo di noia, come abbiamo visto fino ad ora, questo non è propriamente corretto. Quindi, prendendo in considerazione l’aforisma di Kafka “L'ozio è il padre di tutti i vizi, ed è il coronamento di tutte le virtù” si può fare un’analisi molto più chiara di questo termine così ambiguo. Infatti analizzando la citazione si può ben comprendere come l’ozio sia allo stesso tempo “padre di tutti i vizi” e “coronamento di tutte le virtù”. Ciò è possibile in quanto questo termine può trovare un’accezione negativa o positiva in base all’utilizzo che si fa del tempo passato ad “oziare”. In altre parole l’ozio risulta essere il “padre di tutti i vizi” quando si trasforma in noia, ossia quando crea nell’individuo un continuo stato d’insoddisfazione verso ciò che lo circonda; mentre diventa “coronamento di tutte le virtù” nel momento in cui ricopre il suo originale ruolo di momento riflessivo privilegiato, dedicato alla propria cura personale (che sia essa intellettuale, fisica o spirituale).


Pertanto l’ozio, inteso nel suo senso più antico (e per certi versi più corretto ed equilibrato) diventa tutt’altro che superfluo, anzi al contrario, risulta essere necessario all’uomo in quanto come disse la scrittrice britannica Virginia Woolf “nell'ozio, nei sogni, la verità sommersa viene qualche volta a galla.”. Quindi, pur dovendo andare contro quell’inarrestabile fiume in piena che è lo scorrere del tempo e della modernità nella società contemporanea, è bene per l’uomo dedicarsi ogni tanto all’ozio per ritrovare se stesso o quanto meno per cercare di non perdersi in una frenesia che non lascia più né spazio né tempo a nulla. A tal proposito è interessante contrapporre alla definizione di ozio data dall’enciclopedia Treccani.it un’altra definizione, senza dubbio più concisa e meno enciclopedica ma forse più diretta; infatti lo scrittore statunitense Amrbose Bierce lo ha espresso in questo modo: “Ozio: Intervalli di lucidità nei disordini della vita.”.

mercoledì 19 novembre 2014

Blog#nove: C'era una volta l'Ager Cuprensis

C’era una volta l’Ager Cuprensis

Alla scoperta di una tra le più floride colonie dell’antica Roma, ormai ridotta a piccolo paese di provincia.

Nel Bel Paese nessuno si stupisce più di vivere letteralmente sulle spalle della storia. Dalle Alpi al Meridione infatti il nostro territorio nazionale è il più ricco al mondo di reperti archeologici della civiltà romana. In questo articolo quindi si potrebbe parlare di Pompei o Ercolano, di Roma o di Ostia; tuttavia nelle Marche c’è un piccolo paese di pescatori chiamato Cupra Marittima che conserva nella storia della sua terra un passato romano non indifferente, anche se poco conosciuto.
Infatti, dopo la conquista del Piceno avvenuta da parte dei Romani nel 268 a. C., il territorio cuprense fu incorporato in una prefettura dell'agro romano. Cupra Maritima fu inclusa con Firmum e Falerio Picenus nella tribù Velina istituita nel 241 a. C. In questo modo nasceva l’ Ager Cuprensis, identificato poi in epoca augustea con la Regio V Picenum.
In questa zona l’insediamento urbano maggiore era quello di Cupra Maritima, di cui si hanno importanti resti archeologici che testimoniano la presenza di un’antica e florida colonia romana. Tra le aree più significative della città sono individuabili il bacino portuale, l’area delle ville suburbane, l'area sacra, il forum, e infine la necropoli.
Questa città era famosa in antichità per la produzione di olio, olive e commercio marittimo grazie al suo grande porto, fra i più importanti dell’Adriatico centrale (insieme ad Ancona). Infatti è proprio dal porto di Cupra che passavano molti commercianti diretti nell’entroterra marchigiano e da qui a Roma, oppure oltremare verso le coste illiriche; ancora oggi inoltre possiamo ammirare i resti di una struttura (denominati Mura Mignini) facente parte del grande complesso portuale.
La ricchezza di questa antica colonia è testimoniata anche dal ritrovamento di due strutture abitative di lusso: una villa con ninfeo e un edificio termale. Grazie poi a vari interventi di scavo è stato portato alla luce il calidarium con vasca dell’edificio termale ed ora sono quindi visibili porzioni di pavimenti a mosaico e suspensurae. Il ninfeo invece ha pianta quadrangolare, con vasca centrale, pareti decorate da nicchioni e affrescate con motivi a riquadri ed esedra centrale affrescata con scene marine.
Ma ciò che rese grande Cupra in epoca Romana non furono solo il commercio e la presenza in città di ricchi patrizi, ma anche e soprattutto il forte ruolo sacro che questa terra aveva sempre avuto. Infatti  Il nucleo primitivo è da identificare con il santuario della dea Cupra e la sua finalità era prettamente religiosa, senza sottovalutare quel ruolo politico svolto dal tempio come centro decisionale e d’incontro delle popolazioni picene.
L’Ager Cuprensis inoltre diede i natali a vari personaggi romani illustri. Uno fra questi fu Lucio Afranio (originario di Cossignano), fedele legato di Pompeo Magno, fu eletto console nel 60 a.C.. Tra gli altri troviamo anche Lucio Minucio Basilo, un eminente ufficiale di Cesare in Gallia e durante la guerra civile che divenne poi suo congiurato (fu anche amico e destinatario di alcune lettere di Cicerone). Inoltre era originaria dell’Ager Cuprensis anche la seconda moglie dell’imperatore Nerone, la bellissima Poppea. Infine si può ben ipotizzare un rapporto particolare con il Piceno da parte dell’imperatore Adriano in quanto, pur non essendovi nato, tale regione era comunque la terra di origine della sua famiglia.

Tutte queste informazioni sono state per molti anni raccolte ed approfondite da vari archeologi che hanno lavorato con zelo al fine di far conoscere ai cittadini il tesoro che si celava sotto i loro piedi. Per lo stesso motivo è stato creato nel 2012 il “Gruppo Storico Cuprense” che ogni anno a Luglio da vita ad una rievocazione storica (Artocria) riproducendo fedelmente usi e costumi del periodo romano e mostrando ciò che Cupra fu e che riecheggia ancora nella storia moderna.


Blog#otto: Dalle stelle alle stalle del Rap

Rap or Crap? Avete ancora qualcosa da dire?
"Era meglio prima"  cantava J-Ax nella sua omonima canzone.

            Ma quando diciamo "prima" a cosa facciamo riferimento? In genere pensiamo a quando il rap nacque come denuncia contro le ingiustizie sociali. Tuttavia siamo sicuri che quello che oggi definiamo "rap" sia proprio lo stesso genere musicale nato nella problematica America degli anni '70? 
            In quegli anni infatti la drammatica situazione di molti ragazzi dei ghetti (per lo più afroamericani) e quella di molti detenuti dei maggiori penitenziari, portò, spinta da un forte sentimento di sfogo, alla creazione di questa nuova forma d'arte. Ne conseguì soprattutto  la composizione di significativi brani di denuncia sociale su una base musicale ricca di suoni fortemente ritmati. Conseguentemente la relazione tra testo e ritmo risultava inscindibile, tant'è vero che il nome stesso del genere "Rap" -acronimo di "Rhythm and phrases"- spiega questo legame.
            In Italia questo genere approdò fra gli anni '80 e '90 ed ebbe subito fortuna  grazie ad esponenti del calibro di Neffa, Banda Bassotti e Bassi Maestro, appartenenti a quella che oggi possiamo definire la "Old School". Prerogativa fondamentale di questi artisti era quella di suscitare maggiore interesse in campo politico-sociale.
            Tuttavia, con il passare degli anni, questo genere musicale ha subito varie modifiche e manipolazioni che lo hanno avvicinato alla sfera consumistica della società moderna, facendogli perdere quello spirito di denuncia che lo caratterizzava intimamente. In questa nuova concezione troviamo artisti che, facendo leva sulla componente musicale, creano brani di grande tendenza ma dai contenuti alquanto superficiali e diseducativi. Di fatto questi testi affrontano temi che suscitano l'interesse fra i più giovani ma non offrono spunti critici o riflessivi, preferendo la banalità espressiva alla ricchezza dei contenuti. Per citarne qualcuno tra i più celebri, troviamo Emis Killa, Dargen D'amico e Rocco Hunt, artisti noti tanto per la loro grande popolarità quanto per la vanità dei loro testi.
            Bisogna però ricordare che in Italia il rap ha avuto migliore sorte con artisti che hanno preferito la sostanza dei contenuti al mero profitto. Importanti in questo caso sono le produzioni artistiche di rapper quali Caparezza, Nesli e Murubutu. Infatti esaminando le opere di questi cantanti troviamo un forte interesse per argomenti di carattere socio-politico (Caparezza e Nesli) e talvolta persino storico-letterario (Murubutu).  Questi artisti non sempre trovano grande diffusione commerciale ma, al fine di non perdere il loro spessore tematico, sacrificano la possibilità di ottenere una maggiore popolarità.
            Non sono stati dello stesso avviso altri rapper che, dopo aver esordito nello scenario musicale italiano con album di grande rilievo, hanno adattato la propria immagine alle esigenze del marketing, al fine di ottenere un maggiore guadagno. In questa categoria troviamo Fabri Fibra, Club Dogo e Salmo che pur avendo iniziato brillantemente la loro carriera si sono venduti alle grandi case discografiche.
            Analizzando queste considerazioni ci si accorge che la grande popolarità, tra i giovani, degli artisti così detti "commerciali" deriva dalla futilità della loro musica. Come mai i ragazzi delle nuove generazioni preferiscono riempirsi le orecchie di illusioni, non accorgendosi di quanto queste siano vane? Forse perché preferiscono un motivo di svago a una riflessione impegnativa. Tutto ciò ha portato ad una sorta di degrado ideologico che vede protagonisti i nuovi giovani, i quali piuttosto che sviluppare un proprio pensiero critico tendono ad assimilare tutti le stesse mode, omologandosi. 

Quindi Fedez esagera quando nel suo ultimo singolo, non a caso intitolato "Generazione Bho", li definisce "Generazione televoto coi cervelli sottovuoto"?